mixology
30 Dicembre 2025
Il Mercato del Capo non è un luogo neutro. Ha un odore, un ritmo, una voce che copre le altre. È uno spazio che non perdona le sovrastrutture e smaschera subito chi parla per posa. È qui, in mezzo ai banchi e alla vita vera, che la Palermo Cocktail Week quest’anno ha scelto di portare una masterclass di Leonardo Leuci. Non in una sala conferenze, non dietro a un fondale brandizzato, ma dentro un mercato che ogni giorno insegna cosa significa lavorare sul serio, senza filtri e senza scorciatoie.
Il rischio di parlare solo a sé stessi
Davanti a Leuci non c’era una platea generica. C’erano bartender palermitani, riconoscibili dallo sguardo prima ancora che dai volti: gente che conosce il peso del servizio, le dinamiche della sala, la differenza tra una serata che funziona e una che resta faticosamente in piedi. Il mercato continua a vivere mentre si parla di cocktail. Si spostano cassette, si urlano prezzi, qualcuno passa troppo vicino. Nulla è costruito, nulla è protetto. Ed è proprio questo che rende il contesto così onesto. Qui non c’è spazio per l’autocompiacimento: o quello che dici ha un senso concreto, oppure cade a terra.
Leonardo Leuci parte da un punto chiaro, che non riguarda solo la miscelazione ma il modo stesso di stare dietro a un banco: ci stiamo concentrando su tutto, tranne che sulle cose che tengono davvero in piedi un bar. Tecnica, attrezzature, processi, parole inglesi ripetute come formule magiche. Ma poi c’è il lavoro quotidiano. C’è la sala. C’è il servizio. C’è il rapporto con le persone. Quando Leuci parla di categoria prima che di prodotto, il tema non è teorico. È pratico. Senza una base condivisa, senza un linguaggio comprensibile, la complessità non aggiunge valore. Diventa rumore.
E il rischio, sempre più evidente, è quello di parlare solo a sé stessi, mentre davanti al banco c’è qualcuno che vorrebbe semplicemente sentirsi accolto. Bersi una cosa che gli piace, ancor prima di una cosa interessante. Leuci non parla da osservatore esterno. Il suo percorso attraversa alcune delle fasi più significative dell’evoluzione recente del bar contemporaneo, in Italia e all’estero, tra apertura di format, consulenze e gestione diretta di sale complesse, dove identità, servizio e sostenibilità operativa devono convivere ogni sera. È da questa esperienza concreta — dal banco e dalla sala, prima ancora che dalla teoria — che nasce il suo sguardo critico.
Il problema non è il milk wash. Il problema è quando diventa un termine da esibire, senza essere in grado di spiegare cosa cambia davvero nel bicchiere. Il problema non è il twist. Il problema è quando la parola twist viene usata come una scorciatoia, senza sapere raccontare in cosa consista e perché dovrebbe interessare a chi è seduto lì. La tecnica, dice Leuci in modo netto, ha senso solo se serve a migliorare l’esperienza, non a complicarla. E l’esperienza non è fatta solo di ciò che c’è nel bicchiere. È fatta di tempo, di tono, di attenzione. Di sapere quando parlare e quando tacere. Di leggere la stanza prima ancora della drink list.
Quale sarà il futuro dei bartender?
A un certo punto il discorso si allarga, inevitabilmente, al bar come luogo. Perché ci sono posti in cui si beve anche male, ma si torna volentieri. Ci si beve una birra, magari nulla di memorabile, ma si resta. Perché lo spazio è accogliente, perché l’atmosfera funziona, perché c’è una storia che si sente, non che si racconta. Perché stare lì è piacevole. E allora le domande diventano scomode, ma necessarie: che tipo di bar vogliamo costruire? Un locale pensato per durare una stagione o un luogo che attraversa gli anni? Una vetrina o uno spazio abitabile? Il ritorno ai classici, nel discorso di Leuci, non ha nulla di nostalgico. È una questione di responsabilità. Il classico è misurabile. Non permette di nascondersi dietro il nome o dietro la tecnica. O funziona, o non funziona. E soprattutto: o regge nel tempo, o no.
Questo vale anche per il ruolo del bartender. Che non è una prima donna, non è un personaggio, non è una copertina. Da anni il settore si ripete, quasi come un mantra, che “non si salvano vite, si fa solo da bere”. Una frase che dovrebbe riportare tutti a una sana misura, ma che troppo spesso convive con atteggiamenti diametralmente opposti: protagonismo, ego ipertrofico, pose da palcoscenico. Se davvero si fa “solo da bere”, allora bisognerebbe tornare a farlo bene: con attenzione, con rispetto per chi è dall’altra parte del bancone, con la consapevolezza che il bar è un luogo di servizio prima che di affermazione personale. Il mestiere del bartender vive nella sala, nel rapporto con le persone, nella capacità di accogliere. Tutto il resto è rumore.
La masterclass non ha un andamento accademico. È spezzata, interrotta, a tratti ruvida. Come il mercato. Come il lavoro vero. Ma è proprio in questa imperfezione che il messaggio passa con più forza: tornare con i piedi per terra non significa rinunciare alla qualità, ma rimetterla al posto giusto. La Palermo Cocktail Week, in questo senso, cresce non per accumulo di eventi, ma per scelte. Per luoghi. Per contenuti. Portare una riflessione del genere dentro un mercato non è una scelta estetica, ma una presa di posizione: ricordare che il bar nasce per accogliere, non per esibirsi. Quando Leuci smette di parlare, il mercato continua. La vita va avanti. Ed è forse lì che si misura tutto il resto: il bar ha senso solo se sta dentro la vita, non sopra.
Dopo la masterclass, infatti, il mercato non cambia registro: si mangia. Tutti insieme, attorno a una tavolata improvvisata, con il rumore che torna a coprire le parole. Pane, panelle, crocché, polpette, e poi lui, il panino con la milza — u pani câ meusa, come si dice a Palermo. Unto, forte, viscerale. Un cibo che all’inizio quasi respinge, che ha un odore difficile, che non fa concessioni. Ma che, al primo morso, racconta tutto: la storia, la fatica, il cuore. Forse anche il bar dovrebbe tornare a somigliare un po’ a questo. Meno patinato, meno preoccupato di piacere subito, più disposto a sporcarsi le mani. A essere imperfetto ma vero, ruvido ma accogliente. A non cercare approvazione, ma presenza. Perché alla fine — come al mercato — non è la posa che resta, ma il calore. E se qualcosa “puzza” ma ci fa stare bene insieme, forse è proprio da lì che vale la pena ripartire.
Federica Bucci
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