04 Giugno 2019

Ca’ di Rajo, passione antica per gli autoctoni e la bellussera

di Luca Gardini


Ca’ di Rajo, passione antica per gli autoctoni e la bellussera

Se vi dicessi che dall’alto un vigneto può sembrare un enorme nido d’ape probabilmente mi prendereste per pazzo. Eppure a volte capita: o almeno capita a Cà di Rajo. Merito, detto per inciso, della strabordante passione di una famiglia il cui capostipite, nonno Marino, ha appena festeggiato l’80esima vendemmia, e al momento non ha nessuna intenzione di appendere, per così dire, le forbici al chiodo. Ma andiamo con ordine: l’ossessione per la viticoltura a Rai di San Polo di Piave - bellissimo comune in provincia di Treviso - sede della cantina, ha radici profonde: risale infatti a più di 80 anni fa, anche se nel 2005 prende la forma di Cà di Rajo, brand creato dal nipote di Marino, Simone, oggi alla guida dell’azienda insieme ai fratelli Fabio e Alessio. Timonieri giovanissimi, va detto, ma ambiziosi e – anche loro – con i piedi ben piantati nell’amata terra, dato che dai circa 100 ettari di vigneti (tra Veneto e Friuli) e dalla cantina escono Prosecco, Malanotte, Raboso Piave Doc, Manzoni bianco, Pinot grigio, Chardonnay, Sauvignon, Cabernet sauvignon, Cabernet franc, Merlot, più escursioni in zona marzemina bianca e Manzoni rosa in rarissima versione spumantizzata, esportati attualmente in più di 50 paesi. 

VALORIZZARE LA TRADIZIONE
Ed è proprio questa la chiave per interpretare il lavoro di Ca’ di Rajo: un Veneto anomalo (almeno nel quadro attuale), che non mira ad inseguire facili guadagni sulle ali dell’ ‘uva d’oro’, ma è impegnato piuttosto nella valorizzazione degli autoctoni e nella salvaguardia delle bellussere, un antichissimo metodo di allevamento messo a punto proprio in territorio trevigiano, alla fine dell’800, dai fratelli Bellussi di Tezze di Piave. La bellussera, che oltre ad un metodo di allevamento è anche uno splendido esempio di architettura di paesaggio, è oggi purtroppo in via di estinzione.  Sviluppata in un momento storico in cui in Francia si sviluppavano guyot e sylvoz, la bellussera permise insieme di combattere la peronospora e sfruttare al massimo le risorse della terra. Nel vecchio modello rurale ottocentesco, infatti, le campagne del Piave erano coltivate in mezzadria, lasciando ai contadini solo un terzo del raccolto. I vigneti a bellussera, che sostanzialmente sono vigneti in elevazione, tendono i tralci vitati a oltre due metri d’altezza, utilizzando paletti di legno lunghi anche 4 metri, uniti con fili di ferro sulle sommità a formare una specie di tettoraggera, evitando così che l’umidità della terra crei le condizioni per lo sviluppo della peronospora e inoltre permettendo, visti gli ampi spazi tra i filari, di coltivare ortaggi e fieno per la sussistenza della famiglia e del bestiame. Soprattutto gli altissimi costi di manutenzione, le capacità tecniche necessarie al suo allestimento e le concezioni moderne della viticoltura, più orientate all’”usa e getta”, hanno decretato la fine di questa tipologia di coltivazione, che rimane tuttavia un oggetto di culto per la sua bellezza estetica, clamorosa in vista aerea, oltre che per l’efficacia e l’indiscutibile qualità del frutto maturo. 

ICONEMA, SIMBOLO DELLA BELLUSSERA
All’importanza del mantenimento delle tradizioni Cà di Rajo, che di vigneti a bellussera ne possiede ben 15 ettari, dedica una bellissima bottiglia, Iconema, che porta in sé le stimmate della bellussera, visto che sull’etichetta è appunto iconizzata la vista dall’alto del vigneto, ma che è soprattutto un rarissimo Tai (ex Tocai) Doc Piave ottenuto da uve, allevate a bellussera, di una vite ultracentenaria. Un vino magnifico, salino, iodato, dalla spalla larga, dalla boccata ammaliante, giustamente alcolica, con un chiarissimo sentore di cedro candito. Merito del terreno, certo, la zona del Piave è celeberrima per la spinta sapida dei suoi vini, ma anche, voglio credere, di queste bellissime viti che raccolgono in sé una storia talmente nitida da risultare quasi tangibile, ad ogni boccata. Altro splendido esempio di vino prodotto dalla cantina è il Malanotte, ho assaggiato il 2013 e devo ammettere che questo Raboso da uve surmaturate in pianta ha una spinta rabbiosa, un eccellente corpo sostenuto da un bellissimo frutto e una confortevole boccata da ciliegie sotto spirito. Completo il panel degli assaggi con questo lodevole Manzoni (traminer incrociato con trebbiano) Rosa spumantizzato, bellissimo color salmone, bella spinta floreale al naso, boccata piacevole e non eccessivamente persistente.

Romagnolo verace, Luca Gardini inizia giovanissimo la sua carriera, divenendo Sommelier Professionista nel 2003 a soli 22 anni, per poi essere incoronato, già l’anno successivo, miglior Sommelier d’Italia e – nel 2010 – Miglior Sommelier del mondo.

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