caffè

15 Maggio 2019

Garden of Coffee: il concetto di caffetteria basato sulle tradizioni etiopi e che fa bene alla filieria

di Carlo Odello


Garden of Coffee: il concetto di caffetteria basato sulle tradizioni etiopi e che fa bene alla filieria

Lei è Bethlehem Tilahun Alemu, un’imprenditrice etiope ritenuta da Forbes una delle donne più influenti al mondo. Nel 2016 ha lanciato Garden of Coffee e recentemente ha annunciato l’accordo con un investitore cinese con l’obiettivo di aprire 100 locali in Cina entro il 2022. Fin qui sembrerebbe il solito copione: una buona idea di impresa che trova il sostegno finanziario di un partner importante in una grande economia. Aggiungiamo un tassello: Alemu è un’imprenditrice sociale, fa ciò che fa per creare una ricaduta positiva sulla filiera del caffè etiope e aiutare il proprio paese a costruire un futuro migliore. Quindi si tratta anche di una bellissima storia in cui il profitto d’impresa ha una destinazione ben chiara, uno scopo nobile ed encomiabile.

UN’IDEA CORAGGIOSA
Eppure ciò che mi ha colpito di tutto ciò è soprattutto che il modello di business si basa su un’idea coraggiosa: Garden of Coffee propone un concetto di caffetteria basato sulle tradizioni etiopi nel tostare e servire il prodotto. Qualcuno potrebbe dire che non c’è nulla di nuovo: in fin dei conti Alemu venderà un’esperienza, come tante altre catene grandi e piccole in Cina. E d’altronde il consumatore cinese non cerca mica il caffè in quanto tale, cerca il momento speciale, quello in cui farsi un selfie da postare sui social media. Invece no, qui c’è un elemento che manca in moltissime realtà: l’identità. Parliamoci chiaramente: la maggior parte dei negozi di catena in Cina (e non solo) è fondamentalmente frutto di un copia-incolla perpetuato negli uffici marketing di aziende gigantesche che muovono masse di denaro degne di una manovra finanziaria. Alla fine l’esperienza è più o meno sempre la stessa: locali ben curati, servizio standardizzato, caffè un po’ di tutti i livelli e per tutte le tasche. Questa visionaria imprenditrice etiope sa bene che deve percorrere una strada nuova: quella dell’identità culturale. Lei venderà pezzi di cultura del suo paese per aiutare il suo paese. Nel parlare dell’operazione, Alemu ha usato termini come “eredità culturale” e “autenticità”, parole che definiscono per contrasto l’anonima globalità delle grandi catene internazionali. Realtà così simili da dovere investire continuamente risorse importanti nelle attività di marketing per cercare di emergere da un continuum di brand quasi indistinguibili tra loro.

L’INSEGNAMENTO PER NOI
Questa storia ci riguarda moltissimo: è una storia etiope che parla però di come anche noi italiani dovremmo approcciare il mercato. Evviva quindi quelle imprese che già oggi sostengono l’identità dell’espresso italiano tramite propri locali diretti oppure supportando gli operatori e le organizzazioni. Queste realtà fanno una fondamentale opera di trasmissione culturale. I torrefattori che investono in un senso antropologico oltre che produttivo non possono che essere una luce per chi invece, purtroppo, continua a strizzare l’occhio a tendenze globalistiche in cui noi italiani, per dimensioni e indole, non saremo mai completamente a nostro agio.


L’autore è Consigliere dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e Amministratore del Centro Studi Assaggiatori www.assaggiatoricaffe.org

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