bevande
21 Gennaio 2016
È stata messa nero su bianco la carta d'identità della birra artigianale, in un documento che proprio in questi giorni è arrivato a Montecitorio. A firmarlo è Giuseppe Collesi, in qualità di presidente della Fabbrica della Birra Tenute Collesi e portavoce della delegazione marchigiana (nello specifico dalla provincia di Pesaro e Urbino) che già il 13 gennaio aveva incontrato a Roma la Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, con i rappresentanti dell'Associazione Nazionale Città della Birra e del Comune di Apecchio oltre ad altri importanti produttori italiani, ricercatori universitari e operatori del settore.
Proprio perchè "verba volant, scripta manent", Collesi ha contribuito a stendere e depositare un documento di sintesi con i punti chiave della proposta rivolta al Parlamento, dove è in atto la discussione sul Disegno di Legge C. 3119 (già approvato in Senato) che prevede disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione, competitività di settori importanti per l’economia italiana come l’agricolo e l’agroalimentare.
Il nodo centrale della proposta è uno: la definizione di "birra artigianale" deve diventare un brand sinonimo di qualità, in virtù non solo delle materie prime ma anche, e soprattutto, del metodo di lavorazione. Di conseguenza, per essere denominato artigianale, il processo produttivo deve escludere la pastorizzazione e la microfiltrazione, che inevitabilmente alterano il prodotto, impoverendolo delle sue proprietà organolettiche e nutrizionali (gusto e apporto di elementi funzionali per l'organismo). Il fattore umano, nell'artigianalità, è essenziale nell'argomentazione che sottende alla proposta. Qui si gioca la vera, e giusta, differenza con le birre industriali, dove si attua una produzione massiva che si avvale proprio della pastorizzazione e della microfiltrazione. E aggiunge Giuseppe: «Basta vedere il mercato americano, che ha giustamente introdotto il termine "craft beer", per definire proprio a una lavorazione attenta al controllo manuale del processo».
Un'altra questione di grande importanza è l'indicazione sull'etichetta. «Non è pensabile - spiega Collesi - continuare a regolamentarla secondo le disposizioni della Legge quadro 443/1985 per l'artigianato, che si limita a definire l'impresa artigiana secondo il criterio della dimensioni, trascurando appunto fattori essenziali come qualità degli ingredienti e metodi di lavorazione». Si tratta di una distorsione normativa che crea confusione e penalizza fortemente le aziende, anche d'eccellenza, quando non genera addirittura folli contraddizioni. Perchè, ad esempio, le categorie attribuibili per legge al prodotto-birra sarebbero soltanto cinque, a seconda del grado plato: birra, birra analcolica, birra leggera (o light), birra doppio malto e birra speciale. Mentre nulla si dice per altre denominazioni commercialmente assai diffuse - solo per citarne alcune, "Lager", "Ale" o "Stout" - che dal punto di vista legislativo non hanno alcun valore.
Infine, la provenienza degli ingredienti primari. Nella proposta del birrificio Collesi si ribadisce come non si debba subordinare l'artigianalità della birra all'italianità di tutte le materie prime. «In primis, il luppolo: la produzione di questa pianta sul territorio italiano è troppo bassa per soddisfare infatti tutti i birrifici nazionali». Una tesi, questa, avvalorata dagli studi del Dottor Tommaso Ganino del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università degli Studi di Parma e da Eugenio Pellicciari di Italian Hops Company, realtà nata da un progetto di ricerca della stessa università (e fra le prime, del settore, riconosciute dal Ministero dell'Agricoltura) presenti a Roma il 13 gennaio.
Chiara come la birra, ma tutt'altro che artigianale, la proposta lanciata dalle Marche contribuisce a far chiarezza in un comparto che si è sviluppato molto più rapidamente delle norme a sua tutela. «Auspichiamo che, anche grazie alla nostra proposta - conclude Collesi - si attui finalmente una svolta positiva».
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