bevande
11 Luglio 2014
Ex executive sous chef di Del Posto, uno dei sei ristoranti di New York valutato con quattro stelle dal New York Times, nonché l’unico di matrice italiana, lo chef madrileno Eduardo Valle Lobo non ha dubbi: «Penso che la ragione del successo del Ristorante Orsone risieda nella proposta inedita e di qualità: una cucina internazionale che mixa tradizione e prodotti locali con influenze spagnole, americane e orientali».
La struttura si compone di un ristorante gourmet, dall’atmosfera elegante, e di una taverna più informale. Nel primo si possono degustare, per esempio, agnolotti del plin con funghi e burro di aglio orsino, rombo al “sapore di bagel” con granola, “philly”, puré di patate e radicchio grigliato e la ricciola al josper con rucola selvatica, fragole verdi e moscardini. Nella taverna, invece, spazio ai grandi must della cucina americana: dal Calabrone Burger con Fassona, queso Valdeon, cipolle caramellate al Lobster Roll, con astice, sedano, maionese ed erba cipollina.
La prima qualità di un aspirante chef?
La passione, la determinazione e la voglia di non mollare mai. Condivido il pensiero del celebre chef catalano Santi Santamaria, morto nel 2011: scegliere di diventare cuochi è un po’ come prendere la strada del sacerdozio, lo si fa per vocazione, convinti della propria missione.
E quale dev’essere è la missione di uno chef?
Cucinare piatti capaci di conquistare il palato dei clienti, divertirsi e trasmettere la gioia per la cucina e per la buona tavola. Mangiare al ristorante dovrebbe rappresentare una vera festa per tutti i sensi».
Formatoti a Madrid, hai poi lavorato anche a Londra, Monaco di Baviera e New York.
Quanto conta l’esperienza all’estero per uno chef?
Moltissimo: la cucina è condivisione di esperienze e di suggestioni. Viaggiare e conoscere nuove culture apre la mente e rende più flessibili. Anni fa, per esempio, in un noto ristorante giapponese di Londra ho appreso che già solo il modo in cui si tagliano le verdure può influenzarne il sapore.
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Rombo Everything Bagel[/caption]
Dove suggeriresti di andare all’estero?
Oggi vanno di moda i Paesi del Nord Europa, Danimarca in primis. Per uno chef italiano, però, potrebbe essere forse più interessante un’esperienza in Perù. Grazie all’eredità degli Inca e alle immigrazioni da Spagna, Giappone, Italia e Africa, la cucina andina unisce i sapori di quattro continenti. Inoltre il Perù è considerato un centro importante per la diversità genetica dei raccolti: si contano 35 varietà di mais, 15 specie di pomodori e oltre 3000 tipi di patate di forme, colori e sapori diverse.
Portare la cucina internazionale in provincia rappresenta un’opportunità di business?
Sì, perché l’offerta originale e inedita attrae la clientela. Ma per fidelizzare gli avventori nel tempo occorrono competenza, qualità e capacità di raccontarsi attraverso il cibo: è fondamentale trasmettere la tua storia, le tue origini e i tuoi interessi.
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Tortelli vitello, funghi, menta e nocciole[/caption]
A proposito di interessi, hai una predilezione per i piatti vegetali...
Riuscire a trasformare materie prime semplici come carote o patate in pietanze straordinarie significa unire conoscenza, tecnica e creatività. Sottovalutate per anni nell’alta cucina, le verdure oggi sono sempre più spesso protagoniste dei piatti. Io cerco di evidenziare le qualità degli ingredienti, lavorandoli il meno possibile e creando abbinamenti in cui si compensino o esaltino tra loro.
Un suggerimento per i colleghi chef?
L’onda del salutismo si sta affermando anche tra i ristoranti gourmet: occorre ridurre i condimenti e limitare i grassi, nonché introdurre ricette ad hoc per chi soffre di celiachia.
Dal cibo al vino. Un consiglio per impostare la carta?
Privilegiare le etichette regionali, senza però rinunciare a un ricco assortimento di vini nazionali. Inoltre, consiglio di arricchire la proposta con birre artigianali e infusi.
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