vino
17 Novembre 2025
Milano, ristorante Alchimia. Tavolata da quindici, calici sottili, umore alto. Andrea Cecchi arriva senza proclami, niente mitologie da super-cantina né storytelling alla “ritorno alle origini” (che nel mondo del vino significa quasi sempre che hai comprato qualcosa di molto costoso). No. Andrea, che nel vino ci è cresciuto davvero, esordisce così: «Il futuro per me è Montalcino. E si chiama Aminta».
PERCHÉ MONTALCINO?
Il 2025 è un anno strano per il vino italiano: i consumi interni non brillano, l’export ondeggia, il fuori casa vive stagioni più instabili di una fermentazione spontanea. Ma Montalcino resta un marchio solido, uno di quelli che non perde un colpo neppure nelle annate calde. Per un’azienda come Cecchi - storica, strutturata, internazionale - arrivare qui non è un gesto teatrale: è logica pura. Vuol dire completare la piramide del Sangiovese, puntare su un territorio che premia precisione e longevità, presidiare quella fascia alta che parla con la ristorazione fine dining, con i collezionisti e con i mercati premium. Perché se c’è qualcosa che distingue questa famiglia, è la coerenza: il Sangiovese lo respirano da oltre 130 anni. Chianti Classico, Maremma, Umbria… a un certo punto la direzione era evidente. Prima o poi sarebbero arrivati nel posto dove il Sangiovese diventa leggenda.
E ci sono arrivati con la naturalezza di chi conosce i luoghi e non ha bisogno di dimostrare nulla: non volevano “fare il Brunello dei Cecchi”, ma capire cosa potesse raccontare quel Sangiovese, esattamente lì, a Castelnuovo dell’Abate, sotto lo sguardo vigile del Monte Amiata. Insomma: il pezzo che mancava.
SEI ETTARI, TANTA GEOLOGIA
Aminta è piccola. Molto piccola: sei ettari in tutto. Per chi sta già pensando “prodotti introvabili”, sì: è proprio così. Tre i vigneti, Pian Bossolino, Cantina e Caselle. Tre personalità distinte. E un lavoro pedologico fatto sul serio, guidato da Simone Priori, pedologo e professore all’Università degli Studi della Tuscia nel Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali, l’uomo che ha mappato il Chianti Classico con Masnaghetti: un dettaglio che, in realtà, dettaglio non è. Qui ogni filare conta, non per romanticismo ma per geologia. E sì, “geologia” è un parolone che spesso spaventa, ma Cecchi riesce a renderla quasi una chiacchiera da tavola. Parla di formazione di Sillano, Pietraforte, Galestro, sabbie messiniane. Poi fa la sintesi: «Da qui vengono vini più fini e tesi. Da lì più succosi. E là ancora più profondi». Traduco per chi deve fare una carta vini: dove prevale la Pietraforte i vini si distendono, dove domina il Galestro acquistano salinità e trasparenza, dove intervengono le sabbie nasce quella succosità immediata che fa felice chi al tavolo chiede “un rosso che va con tutto”.
In cantina la filosofia è chiarissima: niente legni muscolari, niente barrique “educative”, niente effetti speciali. Il Rosso di Montalcino riposa in cemento, scelta intelligente e contemporanea che mantiene il frutto nitido, la freschezza viva e la beva scorrevole, praticamente il profilo che un ristoratore moderno vorrebbe. Il Brunello, invece, evolve in legno grande, ma con mano lieve: tradizione, sì, ma depurata da ogni severità inutile.
UNA STORIA NELLA STORIA: IL NOME E LE ETICHETTE
Aminta nasce dalla fusione di Anita, madre di Andrea, artista, figura centrale nella storia familiare, e Amiata, il vulcano spento che modella il microclima. C’è anche un rimando alla pastorale di Tasso, complice una fonte termale che sgorga proprio accanto al bosco della tenuta. Le etichette, poi, riprendono i disegni del 1948 realizzati da Anita: geometriche, colorate, decise. Un segno distintivo che racconta più di quanto sembri.
PERCHÉ INTERESSA DAVVERO AL FUORI CASA
Aminta è un’aggiunta significativa per chi lavora nella ristorazione e nel beverage. Una realtà che parla la lingua della gastronomia moderna: vini leggibili, eleganti, puri, capaci di stare al fianco dei piatti senza prevaricarli. È un progetto piccolo, verticale, personale. Un lavoro di famiglia, prima ancora che aziendale. Una visione tecnica chiara: non urlare, ma essere riconoscibili. E soprattutto racconta il tipo di vino che oggi funziona: poco, buono, trasparente, coerente. Se questo è il debutto, il meglio deve ancora venire.
LE ANNATE ASSAGGIATE A MILANO
Rosso di Montalcino Doc 2023 si presenta con un rubino vivo, ciliegia croccante, arancia sanguinella e un tannino serio ma educato. Si beve con gioia, ma non banalizza: quel genere di rosso che un ristoratore intelligente mette volentieri a metà carta.
Rosso di Montalcino Doc 2024, mostra più frutto e più materia. Annata calda, ma gestita con chirurgia: la freschezza c’è, e sorprendentemente tanta.
Brunello di Montalcino Docg 2020 è un’interpretazione pulita e moderna della classicità: frutto rosso maturo, note floreali, e sentori lievemente accennati di arancia sanguinella, un palato succulento, tannini che fanno il loro dovere senza spavalderia. Un Brunello che mette d’accordo puristi e nuovi consumatori.
Brunello di Montalcino Docg 2021, in anteprima, mostra carattere più deciso: tannino più incisivo, croccantezza, energia. Una direzione chiara per il futuro.
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