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14 Giugno 2023Per sette aziende italiane su dieci (il 69,2%) il problema più grave è l’inflazione energetica. È quanto emerge da una survey di The European House – Ambrosetti proposta a un campione di 500 aziende del comparto food&beverage, presentata a Bormio durante il forum “La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni”.
Nella lista degli impatti negativi di quella che è stata definita un'attuale «poli-crisi», il comparto f&b mette al secondo posto il rincaro delle materie prime (49,9%), e via via gli strascichi della pandemia (23,0%) e la difficoltà di approvvigionamento degli input produttivi (22,2%). Ultimo, invece, l’impatto dei danni legati alla siccità (il 13,5% delle imprese), che trova spiegazione nella storica dipendenza delle aziende italiane dalle materie prime estere.
LA LEVA DEL PREZZO? SÌ, MA NON TROPPO
Ad oggi, nonostante una pressione crescente sui costi operativi, quasi quattro imprese su dieci (il 39,4%) affermano di aver aumentato i propri prezzi al consumo meno di quanto sia aumentata l’inflazione, e l’11,6% è stato persino in grado di non aumentare il prezzo.
“È la dimostrazione del ruolo sociale delle imprese in questo contesto di difficoltà anche del potere di acquisto dei cittadini – ha affermato Valerio De Molli, Managing Partner & Cceo, The European House – Ambrosetti – Da solo l’assorbimento di parte del peso dell’inflazione da parte degli operatori della filiera non è comunque sufficiente: questo contributo si inserisce infatti in un quadro che vede i consumi alimentari fermi da oltre un decennio e con una flessione del 3,4% nell’ultimo anno dovuta al momento di crisi, ma non solo. L’Italia è il Paese in cui il salario medio annuale è cresciuto di meno negli ultimi 30 anni tra Usa, Paesi Bassi, Germania, Uk, Francia e Spagna, e dal 2021 al 2022 i salari medi reali si sono ulteriormente ridotti del -3,1% contribuendo così a una sostanziale immobilità del potere d’acquisto”.
L'AGROALIMENTARE E LA DIPENDENZA DALL'ESTERO
Nel corso dell'evento di Bormio è stato poi rimarcato come l’intera filiera agroalimentare italiana sostenga circa 30 macro-settori, contribuendo alla realizzazione del 16,4% del Pil nazionale. Con 282 miliardi di euro di valore aggiunto, di cui 64,1 diretti, il contributo dell’agroalimentare al Pil italiano è pari a 2,5 volte il settore automotive di Francia e Spagna messe insieme.
Nel 2022 la bilancia commerciale della filiera agroalimentare italiana è tornata, tuttavia, negativa con un saldo di -2 miliardi di euro, dopo i primi tre anni di solidità dal 2019 al 2021. L’esposizione internazionale della filiera agroalimentare è guidata da un deficit agricolo in continuo peggioramento, che ammonta a -13,2 miliardi di euro nello scorso anno. Infatti, a causa della dipendenza agricola dall’estero, il Paese ha perso circa 100 miliardi di euro di Pil nel periodo 2010-2022.
SOSTENIBILITÀ, SEMPRE E COMUNQUE
The European House – Ambrosetti, inoltre, ha presentato importanti dati relativi all'atteggiamento degli italiani nel post-pandemia, che hanno puntato su una maggiore qualità della spesa alimentare e oggi comprano un 10,5% in più di alimenti sostenibili certificati, un +7,5% di alimenti biologici e a km zero mentre riducono cibi pronti e confezionati (-5,2%) e cibo spazzatura (-4,4%).
“Le abitudini d’acquisto stanno cambiando con una graduale maggiore attenzione ai temi della salute – ha spiegato Benedetta Brioschi, Associate Partner e Responsabile Food&Retail, The European House – Ambrosetti – Ma nel Paese bisogna ancora lavorare sugli aspetti culturali: solo il 17,3% dei cittadini sa che la dieta mediterranea prescrive il consumo di almeno cinque porzioni giornaliere di frutta e verdura, e solo il 5% mette in pratica questi dettami anche se siamo i primi esportatori di alcuni prodotti che sono alla base di questo tipo di alimentazione”.
Secondo la ricerca Ambrosetti per le imprese un prodotto diventa sostenibile soprattutto nella sua fase di produzione (risposta data dal 38,9% delle 500 aziende del settore food & beverage coinvolte), ma per molte (il 32,3%) è, invece, l’alta qualità delle materie prime il fattore principale di sostenibilità. Nei piani dei prossimi 3-5 anni le aziende dichiarano di voler dedicare maggiore attenzione soprattutto alla sostenibilità della produzione (il 12,7% del totale) e alla riduzione degli sprechi (il 13,7%).
“L’adozione di comportamenti più sostenibili nel carrello della spesa – ha concluso Benedetta Brioschi - può anche essere un efficace contrasto all’attuale rincaro dei prezzi agroalimentari. I consumatori italiani si comportano in base alle rispettive disponibilità economiche: le famiglie meno abbienti si sono orientate verso la riduzione degli sprechi alimentari nel 17,4% dei casi; le famiglie più abbienti, invece, acquistano maggiormente prodotti che possano salvaguardare il proprio benessere, per il 33,3% dei casi”.
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