03 Gennaio 2016

Il servizio è morto viva il servizio? In un mondo ipertecnologizzato, con tavoli parlanti e tablet che danno informazioni su ingredienti e origini, vitigni e accostamenti, e camerieri robot (sono già “al lavoro” in un paio di ristoranti cinesi), ha ancora senso parlare di accoglienza e servizio? Lo ha eccome perché l’interazione umana e il sorriso oggi sono più importanti che mai, e diventano anzi la principale leva competitiva che differenzia un ristorante dall’altro. «L’accoglienza fa la differenza tra un cibo buono e un’esperienza memorabile. La buona cucina in un ristorante conta per il 30%, il resto è accoglienza che si divide in un aspetto “tech”, arredi, musica, profumi, illuminazione, mise en place, procedure operative e in uno “touch”, che coinvolge la relazione, la capacità di fare sentire gradita una persona in quel posto: più è forte questa seconda componete più il cliente avrà una percezione di valore» spiega Mauro Santinato, presidente di Teamwork, società di consulenza per il mondo dell’ospitalità. Importante è però un giusto mix tra questi due aspetti: troppe procedure tipiche delle catene danno la sensazione al cliente di essere parte di un ingranaggio ben oliato, efficiente ma freddo «ma è anche da evitare ciò che chiamiamo l’allegro pollaio, dove è forte la componente umana e ognuno fa del suo meglio, ma non sa bene cosa fare con conseguenze disastrose su tempi e qualità del servizio».
UN LAVORO DI SQUADRA. Un equilibrio difficile, che comincia con la selezione della persona
che lavorerà nel proprio locale. Quali aspetti privilegiare? «Bisognerà scegliere persone dotate di empatia, che è la dote più importante. Va valutata la capacità di relazionarsi con gli altri. La parte tecnica, le procedure si apprendono velocemente ma se una persona è rigida, negativa, fredda non potrà mai fare bene questo lavoro» dice Santinato. Attenzione però: l’atteggiamento dipende anche dall’ambiente di lavoro, perché l’accoglienza non poggia solo sulle spalle del cameriere, ma è un gioco di squadra. «Ci vuole un ambiente positivo, ma anche una cultura aziendale che abbia al centro il cliente. Un buon servizio va progettato, definito e condiviso con tutti gli attori, che devono lavorare per lo stesso obiettivo. Ma sono ancora pochi i ristoranti che investono per formare il personale su marketing e accoglienza». Va ricordato che il primo motivo di lamentela sui social tipo TripAdvisor non è la cattiva cucina, ma l’essere stati trattati con indifferenza.
IL (DIFFICILE?) RAPPORTO CON LA CUCINA. Ristoratori e chef sono focalizzati su ciò che sta nel piatto, e tendono a ignorare il resto. Tradizionalmente i rapporti tra sala e cucina tendono ad essere problematici, ma le cose stanno cambiando. «I camerieri sono i primi clienti che devo convincere della bontà dei miei piatti perché sono loro che comunicano in sala il mio lavoro» dice Elio Sironi chef di Ceresio 7, ristorante, bar e lounge milanese di tendenza. «Sono gli ambasciatori del ristorante e vanno coinvolti nel team, perché tutto è in mano alle persone. Guai al cuoco che si chiude in cucina e non si interessa a ciò che succede fuori».
IL NUOVO CLIENTE RICHIEDE PIÙ CULTURA. Il mondo è cambiato, tra globalizzazione, nuove tecnologie e crisi: è cambiato anche il modo di fare accoglienza? «Oggi abbiamo a che fare con un cliente diverso rispetto solo a 10 anni fa – dice Matteo Zappile di Noi di Sala, associazione di professionisti di sala e cantina nata tre anni fa per ridare dignità e impulso alla professione del cameriere -. Sono aumentate le allergie, le intolleranze ma anche le scelte di vita che impongono diete particolari come il veganesimo. Intanto gli chef stanno sperimentando tecniche e ingredienti nuovi ed esotici. Il cameriere è il collante tra la ricerca dello chef e le nuove esigenze dei clienti. Deve essere dieci volte più preparato di un tempo, non solo sugli ingredienti e le preparazioni ma anche sulla cultura generale. Per interagire con il cliente dobbiamo sapere cosa succede nel mondo, non solo nel nostro mondo». «Quando seleziono un cameriere non guardo il curriculum, chiedo che film o musica preferisce, voglio inquadrare la persona», conferma Sironi. i clienti senza giudicarli» ricordando che «l’errore in sala lo pagano tutti». Per Claudio Sadler «è il cliente che ti fa lavorare e bisogna fargli conoscere il proprio pensiero». «Ci vuole passione: se qualcuno rema contro, meglio lasciarlo andare che cercare di cambiarlo» ha concluso lo chef-pasticcere Salvatore de Riso.
INCENTIVI: DIPENDE DAL TIPO DI RISTORANTE. Aumentano le richieste insomma per un lavoro già duro, che obbliga a orari prolungati e non rispetta le feste comandate, ma il trattamento economico è migliorato? «Assolutamente no – dice Zappile – è un lavoro che si fa per passione, troviamo soddisfazione nella riconoscenza del cliente». Con le nuove tecnologie di cassa è possibile calcolare lo scontrino medio di ogni addetto di sala, perché quindi non proporre incentivi a chi fa meglio? «È importante motivare, far prendere ai collaboratori l’adrenalina del servizio, altra cosa è l’incentivo economico – dice Stefano Cerveni chef di Terrazza Triennale Milano e del Due Colombe a Borgonato di Cortefranca –. In certi contesti può essere un’arma a doppio taglio dare l’impressione al cliente di spingere ad ordinare di più. Può invece avere senso in una ristorazione più standardizzata». La catene, appunto. Secondo Santinato «Siamo a un bivio: ci sono i tanti ristoranti a gestione famigliare che devono darsi un’identità, puntando su territorio, tradizione, chilometro zero, ma è destinata ad aumentare la quota della ristorazione organizzata come nel resto d’Europa. Ci sarà sempre meno spazio per i ristoranti superflui, senza personalità». E l’accoglienza può fare la differenza: il cliente che si sente accolto, a suo agio, ritorna. Se no, difficilmente concede una seconda possibilità.
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