APR. MAG. 2016
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Qual è il lascito di iniziative di
solidarietà come quelle che lei
sta vivendo? Ritiene che anche il
processo creativo di un piatto sia
influenzato da queste esperienze?
Sì, senza dubbio. Anche se, in questo
caso, l’influenza è più sul versante
umano che su quello delle tradizio-
ni gastronomiche vere e proprie. In
Ruanda, come in quasi tutti i paesi
alle prese con una grave e prolun-
gata povertà, la cucina è fondata su
pochi prodotti locali, essenzialmente
cereali, patate e legumi. Sostanziosi e
riempipancia, unpo’ come la polenta
ha rappresentato l’alimentazionenel-
le nostre campagne povere per seco-
li. Quindi è difficile avere influenze,
suggestioni da trasferire alle proprie
creazioni. Viceversa, sotto il profi-
lo umano, vedere queste situazioni,
nelle quali quotidianamente non è
ammesso alcun volo pindarico e il
cibo a disposizione è estremamente
rispettato e non sprecato, di certo
cambia un po’ il modo di vedere le
cose, anche al ritorno in Italia.
In questi ultimi anni gli chef han-
no occupato il centro della scena
mediatica, unpo’ come le rockstar
negli anni ’90. Come giudica que-
sto fenomeno?
Uno chef non può salvare il mondo.
Questo è il punto di partenza del
mio giudizio su questo aspetto. Ma,
certo, la presa sull’opinione pubblica
può servire a fare passare un mes-
saggio che non sia solo edonistico
ma faccia riflettere sulla condizione
di una parte del mondo. Gli chef del
nostro tempo devono sapere coniu-
gare molti piani di lavoro e sinte-
tizzarli in un’unica opera. L’aspetto
più importante è, senza dubbio, una
forte etica professionale, indirizzata
al rispetto e all’equilibrio. Lo chef
deve prendere delle scelte secondo
la propria responsabilità, ma può
anche veicolare un messaggio po-
sitivo nei confronti della società, in
particolare verso i più giovani.
Per finire, qual è la cosa che, se-
condo la sua esperienza, noi occi-
dentali possiamo imparare dagli
abitantideipaesi inviadi sviluppo?
Nel rapporto con il cibo dei ruan-
desi, mi ha colpito la naturalità. Noi
viviamo in una società nella quale la
naturalità è un plus che deve essere
pagato, in certi paesi è la povertà che
inibisce le sofisticazioni. In agricol-
tura e in cucina tutto è naturale, sen-
za l’uso di chimica. Tuttavia, anche
questo sta cambiando rapidamente e,
anche loro, sono tentati dall’agricol-
tura industriale per massimizzare le
rese. Invece, dovrebbero capitalizza-
re la loro naturalità come elemento
di diversità rispetto all’Occidente. E
tutelare la loro incredibile biodiver-
sità dall’incubo della monocoltura.




