05 Giugno 2017

Una favola italiana: lo chef Denis Franceschini a New York

di Maria Elena Dipace


Una favola italiana: lo chef Denis Franceschini a New York

Una storia di successo quella di Denis, 42 anni, di Borgo Valsugana, o borghesan, come preferisce dire lui. La sua è una storia, o meglio una favola di Natale vera e propria.

Hai confessato in una recente intervista che hai cominciato a lavorare in cucina perché non amavi molto lo studio. Una fortuna, direbbero oggi i tuoi clienti…
Si è vero, ho iniziato la scuola alberghiera perché non amavo molto studiare. Ho frequentato 2 anni a Levico Terme e il terzo anno a Varone (Riva del Garda). Diciamo che sin da piccolo sono sempre stato più attratto dal ‘fare’…

È stato amore a prima vista o una passione che è cresciuta strada facendo?
È sicuramente cresciuta strada facendo e continua a crescere giorno dopo giorno malgrado si tratti di un’attività che molti sottovalutano pensando di poter arrivare sul gradino più alto del podio senza fare sforzi o sacrifici. La nostra è un’attività logorante, solo se hai la ‘vocazione’ puoi sostenere la continua pressione.

Quando hai capito che avevi l’X Factor?
Credo di dover ancor capire se ho l’X Factor o no. Mi reputo una persona molto umile che cerca di fare il proprio lavoro con il massimo dell’impegno, passione, amore e rispetto, e che non smette mai di mettersi in discussione confrontandosi e cercando di imparare da chi ha più esperienza di me.

La tua fama è legata a una cucina molto curata e tradizionale o a piatti più stravaganti che vanno un po’ a rompere gli schemi classici? Raccontaci la tua cucina…
Io amo proporre una cucina molto tradizionale, la stravaganza la lascio ad altri anche se ogni tanto mi piace fare qualcosa fuori dalle righe, rimanendo però sempre dentro certi parametri. Sarà forse arrogante dirlo, ma non c’è cosa più bella che poter cucinare ciò che piace mangiare e non solo ciò che la domanda impone.

Che esperienze hai avuto in Italia? E cosa ti è rimasto di quello che hai visto/vissuto qui?
Purtroppo in Italia ho avuto pochissime esperienze. Ho lavorato solamente un anno al ristorante “La Cacciatora” di Mezzocorona (Tn) più qualche esperienza durante la scuola. A 17 anni sono partito per l’America, quindi non posso dire se mi è rimasto qualcosa… di sicuro ricordo di aver lavorato con delle persone fantastiche.

Cosa hai fatto appena arrivato negli States?
Sono arrivato in America nel 1990 subito dopo aver finito la Scuola Alberghiera. Ricordo che dovevo andar a lavorare all’Harris Bar di Venezia ma qualche giorno prima di partire mi arriva una telefonata dove mi chiedono se volevo barattare Venezia per New York. All’epoca pensavo che NY fosse solamente una città immaginata da Walt Disney, quindi è stata più una decisione data dal fascino del nome che per l’offerta di lavoro. Poi quello che è successo dopo è ancora un ‘sogno ad occhi aperti’…

Sei stato per tanti anni all’Harry’s Bar dal ‘mitico’ Arrigo Cipriani. Racconta questa avventura ai tuoi colleghi che sicuramente considerano questo traguardo come punto di arrivo.
Non posso dire che per me sia stato un punto di arrivo, viceversa, è stato il mio primo e unico lavoro prima di aprire Bar Italia. L’Harry’sBar mi ha dato delle basi molto forti e importanti, non solo a livello lavorativo,ma anche nella vita. È stata per me una grandissima scuola, forse la migliore che un giovane possa intraprendere. Di sicuro è un’azienda che mi è rimasta nel cuore.

Cosa hai imparato lì e cosa vorresti condividere di questa esperienza?
Innanzitutto, ho imparato a cucinare, ma anche a gestire, delegare, a prendere delle decisioni importanti. Ho capito come si gestisce una cucina dalla A alla Z. Quello che mi piacerebbe trasmettere ai colleghi è il significato della parola rispetto, il rispetto per le persone che lavorano al tuo fianco e che giornalmente ti aiutano a raggiungere determinati traguardi.

E poi il ‘salto nel buio’. Decidi di aprire un locale tutto tuo. Racconta quando hai cominciato a pensare di poterti mettere in proprio e quali erano le tue paure, ma anche le tue certezze…
L’apertura di Bar Italia è nata un po’ per gioco: l’investimento non era così eccessivo…Assieme ad altri ragazzi, sempre del settore, nel 2007 abbiamo aperto il locale tra tante paure perché non è mai facile creare un qualcosa ex novo. L’unica certezza erano le mie mani, la consapevolezza di saper fare bene il lavoro e nient’altro. Qualche anno dopo, con la crisi del 2009, i miei soci hanno voluto mollare. Io un po’ testardo, straconvinto della possibilità di essere vincenti, ho voluto continuare. Ho trovato nuovi soci e da quel momento è partita la crescita del format che ci ha permesso di aprire nel 2011 anche il secondo Bar Italia nella prestigiosa Madison Avenue.

Che tipo di locale hai creato? Come si è evoluto nel tempo e come mai il nome Bar Italia?
Ho voluto creare un punto di riferimento accessibile a tutti. Credo che New York sia purtroppo una città di persone tanto sole. Ricordo i miei primi anni nella Grande Mela come un periodo di grande lavoro, ma anche di tanta solitudine. Per questo ho voluto creare questo posto accogliente, e penso di esserci riuscito. Il nome si ispira al Caffè Italia di Borgo Valsugana. Il proprietario del bar, purtroppo mancato qualche anno fa, è stato un po’ il ‘padre’ di tutti noi giovani della zona quando si iniziava a uscire e fare le ore piccole.

Come sei riuscito a farlo diventare un punto di riferimento nella Grande Mela così importante in pochissimo tempo?
Non direi pochissimo. Sono 9 anni ormai che ci metto anima e cuore tutti i giorni orgogliosissimo di farlo, lavorando duro, nel pieno rispetto delle regole e con tanto amore per ogni cosa che faccio e per ogni singola persona che entra.

Tu ami definire il tuo locale un ristorante per tutti anche se è frequentato da numerosi VIP. È davvero così?
Sì lo è, ma lo dico sinceramente, tratto i personaggi famosi come tutti gli altri. I VIP vanno e vengono, è la clientela abituale che mi garantisce la giornata e il cassetto.

Gli americani hanno un’alimentazione molto diversa dalla nostra. C’è qualche trucco per incuriosire l’avventore straniero, magari con un ingrediente irrinunciabile per loro, ma non consueto nella nostra cucina o basta solo la passione per il ‘made in Italy’?
Quando servi roba buona e di alta qualità, credetemi, anche l’americano sa apprezzare. Il Made in Italy è sempre il cavallo di battaglia, l’importante che sia vero Made in Italy.

Tra i tuoi aficionados c’è anche il nuovo Presidente Trump. Qual è il suo piatto preferito. Qualche aneddoto?
L’ho conosciuto da Cipriani, ci veniva molto spesso ma non ricordo quale fosse il suo piatto preferito. Al Bar Italia viene spesso Ivana Trump, la ex moglie, che è un’amante del fegato alla veneziana, una persona molto tranquilla e distinta.

Ho letto che torneresti in Italia per aprire un ristorante nel tuo paese, Borgo. Lo faresti davvero?
Rimane sempre il mio sogno nel cassetto… chissà mi piace sognare!

TAG: CHEF,NEW YORK,QUALITALY 96,DENIS FRANCESCHINI

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