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40 MAGAZINE Dai fantastici 4 ai Jackson five, dal six pack ai sette sigilli . Insomma , quante sono le caratteristiche sensoriali di tipo gustativo e come agiscono? Immagino che tu voglia fare riferimento ai quattro gusti base universalmente noti ovvero l’amaro, il dolce, il salato e l’acido. Aggiungiamo l’umami che ritroviamo nei cibi ricchi di proteine e che ormai da una trentina di anni ha ottenuto un posto di diritto nell’albo dei gusti, da quando cioè sono stati decodificati i suoi meccanismi di percezione. Effettivamente ci sono anche altri gusti che dovremmo considerare. Il kokumi ad esempio esprime una complessità, pienez za e continuità gustativa che non è spiegabile con i cinque gusti base sopra indicati. L’oleogustus è poi l'effetto sensoriale indotto dai NEFA , acidi grassi non esterificati. I grassi cioè non contribu- iscono solo alla struttura di un cibo ma alcuni di loro, i NEFA appunto, sono responsabili di uno specifico effetto gustativo non riconducibile ad altri gusti. I prodotti più buoni sono anche più belli a vedersi? I prodotti più belli sono più buoni? Una domanda a cui non è facile rispondere. La bontà sensoriale di un cibo non dipende in senso stretto dal- la sua estetica. Basti assaggiare un cibo esteticamente poco attraente ma gradevole al gusto ad occhi bendati per rendersene conto. Ma c'è un però. Siamo individui polisensoriali che mangiano con tutti i sensi. Gustiamo un cibo con la nostra bocca ovviamente. Però mangiamo con gli occhi, con il naso, con le nostre orecchie, con il tatto delle nostre labbra e della nostra lingua. Il gusto di fragola ad esempio è uno stimolo sensoriale che combina gusto e profumo retronasale; la croccantezza di un cibo non è tale senza la sonorità della masticazione. Il cervello è un abile direttore d'orchestra che riceve, analizza e inte- gra le informazioni sensoriali facendosene interprete. Un interprete mai neutrale. D’altronde il detto ‘l'occhio vuole la sua parte’ esprime una saggezza popolare che ha un fondamento scientifico. Un bell'impiattamento, l'estetica di un cibo, pagano certo anche in termini di gradimento. Un cibo ben impiattato risulta più gradito di uno impiat- tato male a parità di condizioni. E in quanto ad estetica dell’impiattamento sembrano esistere delle regole ‘auree’ che guidano il nostro gradimento. Le giuste porzioni sono più gradevoli alla vista? La giusta porzione, la porzione esatta, quella perfetta che risponde, soddisfacendo, alle esigenze del consumatore e quindi a un concetto di qualità è forse solo un concetto utopico, ma pur sempre un concetto investigabile dagli scienziati. Mi chiedo quali possano essere le dimensioni di questa ‘esattezza’. Esatta perché rispettosa in termini di quantità servita o di appealing visivo? Di rispetto dei significati culturali di forme e colori? Di gradimento sen- soriale senza creare una crasi tra il concetto di liking e wanting (desiderabilità)? Di peso per ottimizzare l’utilizzo di prodotto? Un ‘Just about right ’ per tutti questi fatto- ri? Meno idilliacamente la Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU) ha definito su base nutrizionale l’esatta porzione (porzione standard) ragionando sui concetti di tradizione alimentare, ragionevolezza di dimensione e corrispondenza alle aspettative del consumatore. Non so se le giuste porzioni siano più gradevoli alla vista. Certo è che l’impiattamento influenza il gradimento e la quantità consumata di un cibo. Sulla preferenza per la disposizione nel piatto intervengono poi fattori culturali e di età dei consumatori. Di certo se prevede l’alternanza di spazi pieni e spazi vuoti senza eccedere col cibo nel piatto aiuta il gradimento, di certo il mio. *appuntamento al prossimo numero per leggere la seconda parte dell'intervista a Gianluca Donadini INTERVISTA

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