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33 MAGAZINE Maggio/G iugno 202 3 S e ci si alza troppo tardi per una colazione ma si è forse in anticipo per il pranzo e si ama che la tavola sia sovrana fino a pomeriggio inoltrato, il brunch è un’occasione da non perdere per trascorrere una domenica diversa. Lo è stata divenendo il brunch un vero e proprio simbolo di esclusività e prestigio sociale da quando le star del cinema scendevano negli anni Trenta al The Pump Room dell’Hotel Ambassador di Chicago per un ‘late morning meal’ costretti da uno stop-over di dieci ore nella lunga transumanza in treno da New York a Los Angeles e tutti i ristoranti della ‘città del vento’ rispetta- vano la chiusura domenicale. Lo è stata per le famiglie cristiane a digiuno la mattina della messa della domenica per ricevere la Comunione e per le famiglie ebraiche che - sempre di domenica - avevano poco da celebrare senza il rito della messa. E, in forma più democratica, è stato negli anni Cinquanta e Sessanta un collante sociale per la famiglia americana: l’occasione per mangiare tutti assie- me a prezzi modici, concedendo alla donna, sempre più parte integrante della forza lavoro, il necessario sollievo domenicale lontana dai fornelli. Le uova alla Benedict , i toast con avocado, il bacon, i pancakes, i waffles salati sono la tradizione, benché i moderni ristoratori abbiano ampliato l’offerta di molteplici portate servite a buffet di cibi rigorosamente del territorio e di preparazioni gour- met stellate. Le proposte possono essere bizzarre, dalle più informali a quelle di lusso, abbondanti e variegate. Oggigiorno siamo lontani dalle England hunt breakfast , le colazioni di caccia dei Lord in- glesi di fine Ottocento a base di fegato di pollo, uova, carne, ba- con, frutta fresca e dolci da cui il brunch sembra originare. E ogni città ha sviluppato la propria idea di brunch. Due uova alla Bènedict e un Bellini a New York? Un Dim Sum accompagnato da Yuanyang a Hong Kong? Un oefs en cocotte ou saumon fumé e un Bloody Mary a Parigi? Chi più ne ha più ne met- ta. Noi siamo a Firenze, città che amo. La domenica non mi alzo tar- di. Cammino per i viali fino a San Miniato al Monte e ancora più su fino ad Arcetri, ai piedi dell’Osser- vatorio. Ed è bello avere Firenze tutta in uno sguardo, pur restando in una campagna aperta inattesa scendendo all’Arno lungo via San Leonardo, larga poco più di un viottolo, fino a porta San Giorgio, dove ancora le mura medioevali proteggono la città. E vien fame che non è più l’ora della colazione anche se caffè e pasticcerie storiche offrono il giusto sollievo al camminator stanco. E siccome la fame non aspetta l’ora di pranzo e la voglia di convivialità mostra la stessa urgenza, mi tuffo nella poetica di una colazione che non è pranzo e di un pranzo che non è colazione, in un brunch che è più della somma delle due par ti. E allora andiamo alla scoperta del brunch in due realtà di charme dell’ospitalità fiorentina: il Four Seasons Hotel di Borgo Pinti e Villa Cora. Sono cer to mangerò a sazietà e non mi toglierò il piacere di berlingare a lungo, che a Firenze è più di un semplice ciarlare cinguettando con la pancia piena. E prego Dio che il vino non mi trasformi in un tattameo . Affabulatore rimango, e, spero, non sciocco, anche dopo un bicchiere di quello giusto. Four Seasons Hotel Palazzo Scala Della Gherardesca ha una bellezza geometrica. Non mancano i decori e il cortile inter- no ha un por ticato di una grazia unica con i suoi archi a tutto se- sto. È carnevale. Una cascata di maschere, di quelle essenziali che coprono gli occhi, o al più il viso, fluttuano nei loro colori pastello anticipando la primavera. L’Atrium bar e il Palagio si aprono per il brunch domenicale. Se l’Atrium è un salotto ovattato che porta alla parola mentre si sorseggia un drink di Edoardo Sandri ascoltan- do musica in sottofondo, il Palagio è un ristoro cerebrale ed arioso nelle tinte argento e lavanda, di una cromaticità quasi provenzale. E nella sala che accolse le scude-

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